Educare, Equilibrare, Esercitare il paziente con lombalgia.
Educare, equilibrare, esercitare il paziente con lombalgia. Perché? Sia chiaro, parliamo di lombalgia poiché è la condizione clinica che affligge la maggior parte dei pazienti che si presentano in ambulatorio e la letteratura è piena di riferimenti, ma potremmo estendere il concetto a svariate patologie.
Interrogandosi a lungo su quale fosse il modo migliore di gestire il paziente, Massimo Morini, fisioterapista e osteopata, titolare del centro riabilitativo Fisioemme, autore del libro “Liberi dal Dolore”, propone questo approccio, al cui centro si trovano il PAZIENTE e il suo PERCORSO.
Ma in cosa consiste? Consiste in una metodologia di approccio al paziente che viene preso in carico da noi fisioterapisti.
Il paziente ha bisogno di ricevere informazioni riguardo la sua condizione clinica, le opzioni terapeutiche e una possibile prognosi, deve quindi essere EDUCATO.
È bene che comprenda come gestire al meglio la sua giornata, le sue attività e le sue energie (quanti pazienti si affannano nel fare “tutto subito” per poi ritrovarsi distrutti!), pianificando per riuscire a fare ciò che ama senza “effetti collaterali”. Necessita perciò di essere EQUILIBRATO.
Infine, alla maggior parte delle patologie muscoloscheletriche consegue un decondizionamento generale o locale, da gestire con una ripresa graduale dell’attività fisica e del movimento. È fondamentale quindi l’ESERCIZIO.
Il metodo delle 3E affronta il dolore attraverso un percorso che si sviluppa su 3 passi:
– Educare
– Equilibrare
– Esercitare
PERCORSO è la parola chiave su cui è doveroso soffermarsi.
Il paziente deve sapere che dal momento della sua presa in carico non camminerà automaticamente in modo lineare su due binari paralleli. Intraprenderà piuttosto un percorso, che, come tale, potrà essere breve, ma anche lungo e tortuoso, potrà essere in discesa, ma anche ogni tanto in salita, regolare, o un po’ più accidentato.
Educare il paziente ci serve per trasmettergli l’idea che queste sono le normali caratteristiche di un percorso in quanto tale: ricadute, fatica, momenti di miglioramento e momenti di stallo ne fanno parte, senza per forza determinare un insuccesso. Cercare di riequilibrarlo nel suo stile di vita e riavvicinarlo all’attività ne risultano conseguenze fondamentali.
Ricordiamo che il dolore stesso non è un processo lineare, ma emergente.
Perché un percorso?
La letteratura riferisce che è il paziente stesso ad avere l’esigenza di essere preso in cura e in carico all’interno di un percorso ben delineato, nel quale è noto il punto di partenza, le strade possibilmente percorribili, le figure che si incontreranno e la meta finale.
Spesso però siamo noi clinici a non avere gli strumenti idonei alla comprensione di questo bisogno del paziente, non sempre ci troviamo a nostro agio nel capire il suo problema principale, nel mettere in atto strategie educative, nel coinvolgere le figure di riferimento necessarie una volta definiti gli outcomes e nel definire una buona strategia di gestione.
Per questo motivo, le 3E risultano utili ad entrambi, clinici e pazienti: ci forniscono un’idea di quali step affrontare, passo passo, per gestire il paziente e le sue esigenze secondo quanto affermato dalla letteratura.
Analizziamole nello specifico.
Educare
La primissima occasione di educazione del paziente è il primo incontro con lui, durante il quale viene effettuato il colloquio (oltre che anamnesi, esame fisico, restituzione di una diagnosi fisioterapica e un piano di gestione). Ma ricordiamo che ogni momento di dialogo con lui ha un potenziale educativo enorme!
Dobbiamo sempre considerare che spesso il paziente conosce poco di quanto avviene nel proprio corpo, non riceve spiegazioni adeguate alle domande inerenti la condizione clinica in cui si trova, e fa fatica a reperire informazioni chiare sui libri o nel web.
Ecco perché è importante spiegare il problema e perché si ha dolore. Spiegare il dolore ai pazienti, permettendogli di comprendere la sua vera natura, ha un effetto importante a livello cognitivo.
È stato dimostrato che la conoscenza del dolore agisce sui meccanismi di modulazione centrale discendente, proprio come un trattamento.
Ricordiamo che il dolore è una risposta prodotta dal cervello, che dipende dell’equilibrio tra l’esigenza o meno di proteggersi.
Perché non aiutare il paziente a riconcettualizzare il dolore rendendolo meno minaccioso? Ciò significa che fornire al paziente spiegazioni adeguate nella forma in cui è più predisposto ad apprendere si traduce in una maggiore rassicurazione sul piano cognitivo, e in una conseguente riduzione del senso di minaccia percepito.
Questo deve avvenire il più presto possibile, già dal primo incontro.
La modulazione centrale discendente ad opera di fattori cognitivi ha effetti importanti sulla produzione della risposta “dolore” da parte del cervello del paziente.
Come sostenuto dagli studi sulle Pain Neuroscience Education, i focus riabilitativi sono la riduzione del dolore ed il recupero della funzione, ma l’obiettivo finale deve essere sempre il cambiamento del comportamento del paziente, per renderlo capace di ritornare alle proprie funzioni e ad una qualità della vita migliore “nonostante il dolore”. Molte condizioni muscoloscheletriche, soprattutto quelle croniche, non sono in grado di essere “eliminate”, ma come professionisti, dobbiamo sapere il modo migliore per far sì che i nostri pazienti imparino a gestirle. Molti RCT di alta qualità hanno riportato una riduzione importante del dolore quando l’approccio PNE veniva combinato a quello manuale e all’esercizio fisico. L’educazione ha un grande potenziale: può cambiare gli esiti del paziente, ma anche le prospettive cliniche, traducendosi in un valore inestimabile per la società (meno atteggiamento da malato, meno test, meno consulti medici, meno diagnostica..)
Ma sappiamo esattamente su cosa si agisce somministrando educazione al paziente? E con che scopo?
Educhiamo il paziente per ottenere un cambiamento delle sue convinzioni inerenti il dolore: da dolore come indicatore di lesione a dolore come indicatore del bisogno di protezione percepito dal soggetto.
La “pain education” si fonda sul principio secondo cui il dolore è modulato da diverse variabili cognitive: agendo sulle convinzioni errate si ottengono miglioramenti nella risposta dolore prodotta dal soggetto.
Secondo la teoria dei neurotag, la pain education può modulare direttamente le reti neurali che rappresentano il dolore, poiché modifica positivamente l’equilibrio tra “senso di sicurezza” e “senso di pericolo“, riducendo l’attivazione di neurotag di protezione.
Può ridurre le afferenze nocicettive ascendenti a livello spinale mediante modulazione discendente.
Riduce l’attivazione degli altri sistemi di protezione dell’organismo: riconcettualizzando la minaccia cambia il bisogno di protezione!
Vorremmo proporre una riflessione su come ci poniamo nei confronti del paziente quando parliamo con lui. Abbiamo visto che con l’educazione possiamo agire concretamente sulla modulazione discendente del dolore, in modo positivo. E se, sbagliando il nostro modo di porci, ottenessimo un grave effetto nocebo?
Studi recenti, condotti principalmente da L. Moseley e D. Butler, forniscono informazioni chiare su cosa trasmettere al paziente e come farlo, andando a stilare un “Curriculum” tagliato sulla persona, le sue caratteristiche, i concetti chiave da trasmettergli in base alle sue convinzioni errate, al luogo e alle modalità da lui predilette per apprendere.
L’educazione riguardo il dolore è indicata per tutti i pazienti, ma siamo preparati e capaci per fornirla in modo adeguato?
Il paziente che viene da noi si aspetta che facciamo su di lui qualcosa, che sia qualcosa di manuale, strumentale, “basta che mi togli un po’ di dolore”!
Nonostante le aspettative del paziente siano queste, quello che dobbiamo fare noi è fermarci e valutare. Scontato dire questo quando parliamo di terapia manuale o strumentale. Meno scontato quando parliamo di educazione al dolore. Anche la seduta di educazione che potrebbe sembrare innocua e andare “bene per tutti” e “in qualunque momento”, tanto innocua non è se è fatta nel momento sbagliato.
Ci sembra doveroso a questo punto riportare un articolo il cui titolo, tradotto in italiano, è: “I pazienti con mal di schiena vogliono informazioni chiare, coerenti e personalizzate rispetto alla prognosi, alle opzioni di trattamento e alle strategie di gestione: revisione sistematica” dal quale emergono quelle che sono le necessità espresse direttamente dai pazienti, ovvero:
– informazioni generali sul mal di schiena
– una diagnosi e/o informazioni sull’eziologia del dolore
– l’imaging per confermare la diagnosi e identificare il danno tissutale responsabile del dolore
– conoscere la prognosi, le disabilità future e l’effetto sulle capacità lavorative
– avere informazioni sui processi di riacutizzazione
– nozioni generali sulla gestione del LBP, sulle opzioni di trattamento, farmacologico e non
– informazioni su fisioterapia, osteopatia, consigli di tipo posturale ed esercizi
– personalizzazione dell’iter terapeutico
– come autogestire il problema (attraverso l’esercizio ad esempio)
– conoscere fonti di informazione attendibili
e di ricevere tutto questo in un tono adatto e in un linguaggio comprensibile.
Il paziente è esigente? Si e la sua complessità lo porta ad avere tante necessità. Ma sono proprio le sue necessità a stimolarci ogni giorno, a delineare davanti a un paziente che ci chiede aiuto un percorso e non una terapia senza una diagnosi una diagnosi senza una prognosi quell’esercizio perché è il migliore per il mal di schiena (ma è il migliore per aiutare il paziente a gestire il suo mal di schiena?).
Equilibrare
Parliamo di equilibrio. In che fase è previsto un inserimento ponderato delle attività nel percorso di cura del paziente?
A livello biologico, l’ideale è quando il paziente si presenta da noi perché prova dolore, con chiare componenti nocicettive o neuropatiche (a seconda della causa). Questo corrisponde alla fase acuta e subacuta. Sul piano psicologico, il paziente si trova in una fase di contemplazione: ovvero si sta predisponendo al cambiamento, ponderando i pro e i contro degli stimoli che gli vengono proposti.
In questa fase, dopo aver educato il paziente e dopo aver ascoltato quali sono le attività più difficoltose per il momento esatto in cui si trova, si elabora insieme un “piano d’azione” fondato sui principi dell’esposizione graduale (sia verso i trattamenti fisioterapici passivi e attivi, sia verso le attività quotidiane), ricercando un feedback costante rispetto alle proposte.
Largo spazio quindi alla pianificazione e all’analisi delle proprie giornate, ricercando sempre un coinvolgimento attivo del paziente, che deve essere il protagonista di questa riorganizzazione.
Molte volte il paziente si affanna cercando di svolgere il più rapidamente possibile le “faccende più brigose”.. e il risultato? “Sono distrutto, non posso più fare niente!”.
Come fisioterapisti dobbiamo spingere il paziente verso un’autoanalisi, così che possa rendersi conto del risultato delle diverse attività sul proprio livello di energia e quindi di benessere.
Evitiamo i comportamenti di fuga dai movimenti ritenuti pericolosi così come i comportamenti di resistenza “sopporto il dolore, poi sto fermo e mi passa”. Occorre invece una pianificazione strategica delle attività, finalizzata a distinguere quelle negative, che producono stress e dolore, da quelle positive, che danno benessere psicofisico.
Utile un diario giornaliero, dove si annotano le attività svolte, i tempi e l’intensità del dolore percepito. Questo è fondamentale per costruire delle progressioni e monitorare le riacutizzazioni.
Per tutto questo è fondamentale una conoscenza approfondita del paziente e del suo vissuto, impossibile se non si possiedono determinate skills al momento del colloquio.
Esercitare
Il vero cuore del trattamento dei pazienti che provano dolore: l’esercizio. Perché? Perché il movimento è vita.
Come fisioterapisti dobbiamo essere bravi ad inserirlo nel momento giusto del percorso del paziente, nel giusto tempo, nel giusto spazio e con le giuste caratteristiche. Ricordiamo sempre che al paziente proponiamo di muoversi secondo la scienza.
Caratteristica principale dell’esercizio è la gradualità, per il corpo del paziente, ma anche per il suo cervello, dove i processi di sensibilizzazione possono aver modificato le reazioni al movimento (o potrebbero farlo se lo esponiamo ad esperienze motorie sbagliate!).
Per questo motivo, ci rivolgiamo ai pazienti in fase acuta, sub-acuta e cronica con attenzioni diverse: se nei primi dobbiamo avere un occhio di riguardo per la condizione in cui il tessuto si trova, negli ultimi dovremmo avere cura delle componenti più legate ai processi mentali.
L’esercizio che proponiamo ha come obiettivo uno shift concettuale nei confronti del movimento. Non esiste una tipologia di attività migliore rispetto ad un’altra, ma esiste la migliore per il nostro paziente nel momento in cui si trova!
L’esercizio deve essere studiato insieme al paziente, frutto del compromesso fra gli obiettivi, il tempo a disposizione, il luogo, l’equipaggiamento e il dolore tollerato.
Esistono due tipologie di errori nell’approccio all’esercizio da parte dei pazienti: i “guided by pain”, che al minimo fastidio interrompono l’attività svolgendone sempre meno, e i “boom-bust”, che ignorano il dolore causando riacutizzazioni importanti che li costringono a interrompere.
Per far si che l’esercizio venga preso sul serio è opportuno dedicargli il tempo che merita nella seduta, senza relegarlo agli ultimi minuti che avanzano, altrimenti il paziente non ne potrà percepire l’importanza. È fondamentale che ne venga compreso lo scopo. Esso è come un farmaco, che deve essere specifico per il paziente, ma anche assunto con regolarità e precisione. Se il paziente lo comprende e ne comprende i benefici avrà fra le mani un ottimo strumento per la gestione del dolore, incrementando inoltre la sua self-efficacy!
L’articolo citato nei riferimenti bibliografici di Jo Nijs illustra come i fisioterapisti possano sfruttare le strategie di desensibilizzazione del sistema nervoso centrale, integrando l’educazione del dolore e l’esercizio fisico, a patto che posseggano questi requisiti:
– avere una profonda conoscenza dei processi del dolore
– conoscere il ruolo della paura del movimento nel generare il dolore cronico
– deve essere capaci di spiegare il processo di sensibilizzazione centrale
– possedere capacità comunicative (meglio di tipo educativo, socratico perchè al paziente non serve la “lezioncina”)
– avere familiarità con le strategie di gestione del dolore, come l’esposizione graduale ed interventi basati sull’accettazione.
Queste skills sono spesso il frutto di un importante approfondimento da parte del terapista su temi che non vengono sempre affrontati nel percorso di laurea.
L’apprendimento sul campo sicuramente è indispensabile, ma anche la formazione specifica post-laurea.
Se sei interessato ad approfondire in modo specifico gli argomenti trattati nell’articolo ti aspettiamo al seminario “Cosa vogliono i pazienti con mal di schiena”.
Bibliografia
Massimo Morini, Liberi dal Dolore, Il metodo delle 3 E. Un nuovo approccio verso il dolore cronico. 2017
David S. Butler, G. Lorimer Moseley ; Explain Pain Supercharged The Clinician’s Manual, 2017
David S. Butler, G. Lorimer Moseley ; The Explain Pain Handbook: Protectometer, 2015
2016 Mar;46(3):131-4. doi: 10.2519/jospt.2016.0602.
Know Pain, Know Gain? A Perspective on Pain Neuroscience Education in Physical Therapy;Jo Nijs et Al, Clinical biopsychosocial physiotherapy assessment of patients with chronic pain: The first step in pain neuroscience education; June 2016 Physiotherapy Theory and Practice 32(5):1-17 DOI:10.1080/09593985.2016.1194651
Jo Nijs et Al; Exercise therapy for chronic musculoskeletal pain: Innovation by altering pain memories; 2015 Feb;20(1):216-20. doi: 10.1016/j.math.2014.07.004. Epub 2014 Jul 18.